Ha ancora echi sul web l’indignata denuncia di Paolo Latella, segretario dell’Unicobas Scuola della Lombardia. Il sindacalista, qualche tempo fa, affermò di aver raccolto oltre cinquecento testimonianze dirette di docenti che lavorano nelle scuole paritarie senza essere retribuiti, o che al massimo ricevono solo due euro all’ora in cambio del punteggio per le graduatorie scolastiche. Un ricatto bello e buono, che Latella si è prefisso di far conoscere al mondo.
E’ davvero così?
La cosa che più colpisce in questa storia è il fatto che Latella appaia tanto sconvolto. Queste cose succedono da anni e su tutto il territorio nazionale. Anche io, a suo tempo, feci un sondaggio. Appena laureato mi fu suggerito di provare a fare domanda in qualche scuola privata, perché, mi dicevano, “di concorso non se ne parla e per entrare in graduatoria devi avere i santi in paradiso“. Sprovvisto di aiuti celesti (tant’è che quel giorno pioveva pure a dirotto) mi organizzai, e in una lunga mattinata visitai almeno dieci licei parificati e privati proponendo il mio giovane curriculum. Qualcuno si rifiutò di ricevermi. Qualcun altro mi disse subito che i santi in paradiso dovevo averceli pure per entrare come supplente nelle scuole private. Qualcun altro mi disse che mi prendevano volentieri, ma dopo qualche anno e senza retribuzione, visto che la lista di candidati (anche loro non retribuiti) era già lunghissima. Una gentilissima suora mi spiegò invece che per entrare a lavorare in quella scuola, senza retribuzione, quindi solo per maturare punteggio in vista di un concorso o di una graduatoria aperta, avevo bisogno di una raccomandazione o dovevo, come dire, farmi carico delle spese. Insomma, io dovevo pagare loro. La scuola però mi avrebbe dato ogni mese una busta paga (finta), per “stare a posto con lo Stato”. E con la coscienza, aggiunsi io sottovoce.
Toccate con mano quelle dinamiche che mi erano state raccontate e che avevo sempre rifiutato criticamente, stimandole espressioni di vittimismo da neo-laureato, ho concluso che il professore non lo avrei mai fatto. Per il concorso virtuale, che tutti aspettavano, ero già tagliato fuori a priori: troppo giovane rispetto ai vecchi aventi diritto, troppo vecchio per attendere l’esaurimento delle assegnazioni. E devo ammettere che insegnare mi piace davvero, mi rende, se non felice, vagamente soddisfatto e interiormente appagato. Sarebbe edificante poterlo fare come lavoro, ossia poter campare del servizio fornito all’istruzione e alla maturazione intellettuale di giovani menti in un sistema di principi chiamato scuola. Oggi faccio un altro lavoro e all’insegnamento non ci penso più. Continuo a seguire dei ragazzi nel weekend con le ripetizioni e tanto mi basta. Mi fanno ridere, certe volte mi fanno avvilire e in rari casi mi rendono soddisfatto, fiero.
Per insegnare bisogna cedere a ricatti e piegarsi a dinamiche di sfruttamento da tempo istituzionalizzate. Sia chiaro, non giudico male chi accetta tale trattamento. Ormai è considerato un investimento, o comunque l’unica via per spendere la propria laurea. Anzi, se avessi avuto i soldi, probabilmente lo avrei fatto pure io. Ma i soldi non ce li ho e manco i santi in paradiso. Ed è un circolo vizioso, perché senza i primi non puoi avere i secondi e senza i secondi non puoi avere i primi.