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La migliore amica dei neo-laureati della Sapienza? La precarietà. Lo rivelava nel 2012 uno studio dell’ateneo romano : “Nel triennio preso in esame ogni neolaureato ha firmato in media 3,6 contratti che, nei settori più precarizzati, diventano addirittura 5″. 

I dati in questione erano stati raccolti e elaborati nell’ambito del progetto UNI.CO. che consiste in un incrocio di banche dati tra l’archivio amministrativo della Sapienza e quello delle comunicazioni obbligatorie nazionali del Ministero del Lavoro. Erano state prese in esame le situazioni di 22 mila studenti laureati alla Sapienza nel triennio 2010/2012. Nel 40% dei casi il contratto di lavoro era durato solo una misera settimana. I settori lavorativi più penalizzati e frammentati erano risultati essere quelli della formazione, il quale poteva tristemente vantare un livello di precarietà 5 volte superiore alla media. Mentre i laureati nelle professioni sanitarie o nelle facoltà di ingegneria, vantavano un mercato del lavoro più competitivo e stabili (e tutt’ora è così).

Ma sono le offerte di lavoro ad essere scarse o la qualità dei laureati?

Un sospiro di sollievo: lo studio più recente effettuato nel 2010 smonta il mito della precarietà vista negli anni passati, rilevando un trend di miglioramento che si è consolidato negli ultimi anni. Gli studenti di Economia sono i più fortunati: nel 2020, 42 laureati su 100 trovavano lavoro entro la fine dell’anno della laurea. Percentuali che salivano a 65 se si prendeva in considerazione i laureati magistrali.

Numeri che fanno comunque riflettere tutt’ora, soprattutto in relazione adeguatezza dell’offerta formativa dell’Università pubblica. Le indagini della Sapienza smontano infatti l’assunto secondo il quale non ci sono neolaureati adatti alle professionalità richieste dalle aziende e mostra invece una realtà diversa, secondo la quale sono le offerte di lavoro a non essere adatte alle qualità dei laureati.  Non trovare offerte di lavoro adeguate alle proprie competenze spinge infatti molti neolaureati ad andare all’ estero oppure ad adattarsi a fare lavori di basso livello, perdendo così le abilità che hanno acquisito durante il loro percorso universitario.

Senza contare il nuovo requisito indispensabile: l’esperienza. Paradossalmente le imprese chiedono ai neo-laureati di aver maturato un’esperienza nel settore di almeno un paio d’anni. E lo considerano un requisito discriminante. E come fa un ragazzo che si approccia alle prime esperienze lavorative ad avere questa caratteristica? E’ impossibile! Un circolo vizioso di difficile soluzione.

La laurea rimane in ogni caso la base su cui iniziare la ricerca di un impiego qualificato. Ma se il mercato del lavoro non offre una competitività adeguata, tanto da propinare una moltitudine di contratti – o forse è meglio dire una moltitudine di modi per sfruttare i giovani senza garantirgli le tutele e la stabilità necessaria (e qui ci starebbe un minuto di silenzio per il defunto articolo 18)  –  come possiamo costruirci un futuro in questo paese?